Dalla Siria alla Francia: l’odissea dei “figli di Daesh” detenuti in Rojava

Provo a ritornare su questo blog, perché ho delle cose da raccontare.

Avrei voluto parlarvi del mio incontro con Zerocalcare a Lione, ma era ormai un mese fa, e ci sono notizie più pressanti, e assai meno selenocentriche, quindi più interessanti. Ne ho comunque parlato abbondantemente su Facebook, anche se solo sul mio profilo personale e non sulle pagine delle Piaghe, che ultimamente è un po’ ferma, proprio come questo blog.

Quello di cui voglio parlare oggi sono i bambini. I bambini, come i gattini, fanno sempre notizia, giusto? In questo caso, però, la notizia c’è davvero. Martedì 5 luglio all’alba due aerei speciali sono atterrati a Parigi con a bordo 16 donne considerate come jihadiste e 35 bambini, rimpatriati tutti dai campi di detenzione nel nord-est della Siria.

Perché è una notizia importante? Innanzi tutto perché si tratta della più grande operazione di rimpatrio effettuata dalle autorità francesi dalla caduta di Baghouz, ultima roccaforte di Daesh, nel marzo 2019. Un’operazione che – ed è questo il secondo punto – segna una rottura con la politica del “caso per caso” adottata finora da Parigi, che consiste nel riportare sul suolo nazionale i bambini senza la madre, quindi concentrandosi sugli orfani o su quei bambini la cui madre avesse accettato di firmare un documento di rinuncia alla potestà genitoriale. Una politica che finora aveva di fatto bloccato le operazioni di rimpatrio, perché la stragrande maggioranza delle madri si era rifiutata di separarsi dai propri figli.

Le operazioni proseguono comunque a rilento. Questi 35 minori si aggiungono ai 126 rimpatriati dal 2016. Si tratta di figli di francesi partiti in Siria per combattere nei ranghi del sedicente Stato Islamico. Prima di questo rimpatrio, nei campi gestiti dall’amministrazione del Rojava restavano circa 200 minori e un’ottantina di madri.

La Guantanamo dei bambini

Si tratta di un dossier di cui Parigi non ha di che vantarsi. La Francia è infatti l’unico paese europeo ad avere applicato questa politica del “caso per caso”, rallentando il ritorno dei bambini in patria. Un comportamento denunciato non solo dalle famiglie, ma anche dal Comitato Onu sui diritti dell’infanzia, che lo scorso febbraio ha parlato esplicitamente di violazione dei diritti dei bambini detenuti in Siria in quanto, rifiutando di rimpatriarli e quindi abbandonandoli in condizioni di vita “spaventose”, ne metterebbe la vita in pericolo “da anni”.

La consigliera regionale ecologista dell’Alvernia-Rodano-Alpi Zerrin Bataray, di origini curde, ha fatto della questione uno dei suoi cavalli di battaglia. Sul suo account Twitter denuncia: “35 bambini francesi sono stati rimpatriati su 205 bambini ancora detenuti nei campi in Siria. La Francia di oggi non è degna dei suoi valori” e posta il video in cui Lyes Louffok, del Consiglio nazionale della protezione dell’infanzia, mostra il suo incontro con la nonna di quattro bambini che sono ancora detenuti in uno di questi campi.

Nel video Louffok spiega che “Le ong presenti sul posto descrivono questo campo come la Guantanamo dei bambini. Qui la situazione sanitaria è particolarmente preoccupante e decine di bambini sono morti l’anno scorso”.

La testimonianza della nonna è toccante ma anche informativa. Dice che il più piccolo dei suoi nipoti ha 3 anni, è nato in Siria e conosce solo la realtà del campo. Vorrebbe che questi minori fossero riconosciuti come “vittime in pericolo”. Non giustifica la figlia e chiede che sia fatta giustizia e se necessario sia condannata, ma la situazione nei campi è molto precaria e difficile, soprattutto per i bambini orfani, che non hanno una mamma a proteggerli dai cani randagi e dalle malattie. Si chiede anche quale possa essere il destino di questi minori abbandonati in futuro se restano sul posto.

 

Ho chiesto a Bataray una dichiarazione un po’ più articolata sulla questione, e mi ha risposto:

“Questi bambini sono stati sacrificati sull’altare delle esigenze elettorali, nel timore di scontrarsi con l’opinione pubblica, mentre tutti gli organismi internazionali si sono espressi a favore del rimpatrio da parte della Francia. Nulla può giustificare che alcuni siano ancora condannati a restare. I diritti più fondamentali di questi bambini sono negati da uno stato che si definisce come civile”.

Francia sempre più isolata

Ma perché adesso questo cambio di politica? Ed è, come sperano le famiglie, la fine “di quest’abietta politica del caso per caso”? C’è da dire che la Francia era sempre più isolata nella sua rigidità. Fra il 2013 e il 2017 circa 5.000 cittadini europei sono partiti a combattere per Daesh. Belgio, Finlandia, Danimarca, Svezia, Paesi Bassi e Germania hanno deciso di rimpatriare tutti i figli di questi combattenti, quando possibile in compagnia delle madri. Il mese scorso Bruxelles ha fatto tornare quasi tutti i cittadini belgi che si trovavano ancora in Siria. La pressione su Parigi comincia quindi a essere piuttosto alta.

D’altro canto, il numero di cittadini francesi presenti nei campi siriani è molto maggiore rispetto agli altri paesi europei. C’era quindi anche un problema di spazio. È stata aperta quest’anno all’interno della casa circondariale di Rennes una nuova unità dedicata specificamente alle donne detenute per terrorismo, che offre all’amministrazione carceraria maggiori capacità di accoglienza.

Ma soprattutto, e per tornare alla questione delle “pressioni”, si moltiplicano le condanne da parte di istituzioni nazionali e internazionali.

A livello europeo, la Corte europea dei diritti umani deve pronunciarsi sui ricorsi presentati da diverse famiglie francesi di jihadisti e bambini detenuti. Una condanna della Corte non farebbe bene all’immagine del presidente Emmanuel Macron in Europa. “Dobbiamo credere che il presidente non voglia passare alla storia come colui che ha lasciato morire donne e bambini in campi miserabili sotto gli occhi del mondo intero”, ammette una fonte anonima a Le Monde. Il 14 dicembre 2021 una donna di 28 anni, soprannominata “Maya”, è morta di diabete, lasciando un orfano di 6 anni. Un’altra donna, malata di cancro al colon e madre di quattro figli, rischiava di morire, ed è stata rimpatriata martedì.

Non aggiungere trauma al trauma

Che cosa accadrà ora a questi bambini? Guillaume Erner di France Culture l’ha chiesto all’avvocata Marie Dosé, militante del collettivo Famiglie unite. La risposta è: “In un primo tempo vengono esaminati dai medici. Vengono ricoverati. Sono bambini che non sono stati vaccinati, che hanno sofferto molto e che soffrono di malnutrizione. Quindi bisogna fare un check-up, anche psicologico. C’è lo shock della separazione dalla mamma, che è molto difficile da sopportare, e poi c’è tutto quello che hanno vissuto”. Si tratta di bambini traumatizzati, spiega, quindi c’è bisogno di tutto questo lavoro medico e psicologico. Poi vengono dati in affidamento a delle famiglie, mentre un giudice specializzato lancia un’indagine nei confronti delle famiglie di provenienza, dei nonni, degli zii… In questo modo, poco a poco, possono riprendere familiarità con i parenti biologici, con cui potranno tornare a vivere in un secondo momento.

Quanto alle donne, sono poste in carcerazione preventiva, in attesa del processo per terrorismo. Ci vorranno almeno sei mesi o un anno prima che siano giudicate, spiega l’avvocata Dosé, e in questo periodo di tempo avranno diritto a incontrare i figli accompagnate da psicologi.

All’obiezione del giornalista, che fa notare che le donne jihadiste potrebbero rappresentare un pericolo in Francia, l’avvocata non tentenna: “Prima osservazione: quando questi bambini sono entrati nei campi, avevano tutti meno di 6 anni. La grande maggioranza aveva 2 o 3 anni. Sono delle vittime. Vittime di guerra e vittime delle scelte dei loro genitori. Ma non si può parlare qui di pericolo. Sono bambini che bisogna curare e proteggere. Seconda osservazione: se alcune di queste donne possono rappresentare un pericolo, rappresentano di più un pericolo laggiù che qui. Non dimentichiamo che Daesh ha invitato a più riprese i suoi combattenti a venire a liberare queste donne e questi bambini, cioè a venire a cercarli per arruolarli di nuovo. Che cosa vogliamo? Vogliamo ingrassare ancora i ranghi di Daesh?

Per finire, Dosé sottolinea il doppio trauma dei bambini rimasti, che ora si chiedono: “Perché non sono stato scelto io?” Per lei bisogna ormai rimpatriare tutti in fretta, “perché aggiungere trauma a trauma non è possibile”.

Fonti: Le Monde, France Inter, Zerrin Bataray, Lyes Louffok
Pubblicato in News

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *